REGOLAMENTO DI DUBLINO: VOLEVAMO DI PIU’ E CONTINUEREMO A LAVORARE PER OTTENERE DI PIU’.

Volevamo di più. E continueremo a lavorare per ottenere di più. Sulla riforma del Regolamento di Dublino, sono state tante e diverse le opinioni e in molti si sono chiesti il motivo del nostro voto contrario al testo scritto dal Parlamento Europeo. La spiegazione è presto detta: volevamo puntare in alto e non accontentarci dei piccoli passi che, ahinoi, sembrano essere la prassi della politica dell’Unione. Chiedevamo un cambio radicale in un tema tanto delicato e importante come quello dell’immigrazione, così da arrivare ai negoziati con il Consiglio e con la Commissione con un testo forte e ambizioso. Un testo che ricalcasse il sogno dei padri fondatori dell’Unione, ovvero quello della solidarietà condivisa e dell’equa ripartizione delle responsabilità tra Stati Membri, sancito anche dall’articolo 80 del Trattato sul funzionamento dell’UE, ma raramente rispettato.

 

Per spiegarci meglio, però, facciamo un passo indietro. E torniamo a quando, per primi, abbiamo chiesto la riforma del Regolamento di Dublino.

Prima ancora di arrivare al Parlamento Europeo ci eravamo resi conto, anche grazie alle testimonianze e alle opinioni delle organizzazioni che su questo tema lavorano quotidianamente da anni, del fatto che il principio della responsabilità del Paese di primo ingresso fosse il cappio che obbligava solo alcuni Stati membri a far fronte alla questione dell’arrivo e della gestione dei migranti, esentando gli altri, per una mera ragione e discriminazione geografica, ad interessarsene e ad occuparsene.

Ora in molti sostengono che, con la riforma partorita dal Parlamento Europeo, il principio del Paese di primo ingresso sia stato rimosso. In realtà, le cose stanno in modo diverso. Il primo Paese di ingresso dovrà infatti continuare a svolgere le operazioni di identificazione dei migranti; a fare i controlli di sicurezza; a svolgere le varie operazioni di registrazione delle richieste di protezione internazionale; a fare i primi colloqui per identificare i casi di persone vulnerabili o i casi di ricongiungimento familiare; esaminare prima facie le domande di tutti i richiedenti asilo arrivati e verificare se gli argomenti presentati siano rilevanti o se vi siano altre informazioni disponibili.

Non solo. Se dopo i controlli di sicurezza, infatti, si scoprirà che ci siano dei richiedenti potenzialmente pericolosi, non si procederà al loro ricollocamento e verranno fatti rimanere nel primo Paese di ingresso. Stessa cosa dopo l’esame prima facie delle domande dei richiedenti: nei casi in cui le motivazioni per richiedere la protezione internazionale fossero inconsistenti (perché ad esempio si è ‘solamente’ dei migranti cosiddetti economici) quei migranti resteranno nei Paesi di primo ingresso e non verranno redistribuiti tra gli Stati Membri.

 

Qual è, allora, il primo punto che non ci soddisfa e che continuiamo a dire di voler cambiare? Il fatto che al primo Paese di ingresso resti il peso maggiore degli arrivi e delle prime fondamentali operazioni, nonché la gestione di chi lì dovrà restare, o perché potenzialmente pericoloso o perché palesemente non destinatario di protezione internazionale.

Si potrà obiettare che i migranti che non verranno ricollocati e che resteranno nel primo Paese di ingresso, se non avranno dorotto alla protezione internazionale, dovranno essere rimpatriati con risorse europee, ma non si considera lo stato dei fatti: e cioè che senza accordi bilaterali non è possibile fare rimpatri e che, quindi, anche i soldi europei sono solo un contentino che non risolve la questione. Dunque, delle due l’una: o stiamo destinando i migranti che non hanno diritto alla protezione internazionale, e che -stando ai dati del Ministero dell’interno- sono la maggioranza, a una vita di clandestinità nel primo Paese di ingresso; o stiamo chiedendo, più o meno indirettamente, ai Paesi di frontiera di fare accordi di ogni tipo, anche orrendi e disumani come quello stipulato con la Libia, per bloccare i flussi e organizzare i rimpatri.

 

A questo primo, fondamentale e basilare principio che contestiamo, se ne affiancano altri che ci hanno portato a votare contro la riforma presentata. Ad esempio, la cristallizzazione del sistema hotspot. Dopo essere stati tanto criticati, ora diventano parte integrante del sistema?! È negli hotspot che avverrà la registrazione, infatti, e se un migrante tenterà di passare la frontiera interna dell’Unione verrà rispedito nel primo Paese di ingresso che, a sua volta, verrà sanzionato per non aver vigilato abbastanza affinché il migrante ‘non scappasse’, cercando di presentare la domanda di protezione internazionale in un altro Paese dell’UE.

 

Terzo punto critico della riforma: si sancisce una responsabilità permanente in capo al primo Paese di ingresso. Con le vecchie regole uno Stato membro diventava competente se il richiedente vi averva soggiornato per un anno, anche se era sbarcato in un altro Paese. In base al testo riformato, ciò non sarà più possibile.

Quarto: per tre anni i Paesi dell’Est, da sempre refrattari all’accoglienza, potranno evitare di aprire le porte ai migranti. Una deroga al principio di condivisione delle responsabilità e degli obblighi che davvero lascia basiti e interdetti: anzichè andare incontro ai Paesi che storicamente accolto di più, si accolgono le richieste dei Paesi che storicamente hanno accolto poco o nulla.

 

Insomma, il nuovo Dublino stabilisce che solo i migranti che hanno diritto alla protezione internazionale verranno ricollocati, per tutti gli altri ci sono l’obbligo a restare nel primo Paese di ingresso, la possibilità di tentare la sorte con eventuali spostamenti secondari di fortuna, una vita in clandestinità e, forse, il rimpatrio. Insomma, appare chiaro che il principale obiettivo della riforma fosse azzerare i movimenti secondari, quelli cioè all’interno dell’Unione tra un Paese e un altro, invece che razionalizzare il sistema e ripartire le responsabilità.

 

D’altro canto, tutti hanno ottenuto quello che si prefiggevano: i Paesi del Nord Europa hanno lavorato per impedire i movimenti secondari, e ci sono riusciti; i Paesi dell’Est Europa, hanno lavorato per non dover ‘subire’ il meccanismo dei ricollocamenti, e ci sono riusciti, perché per tre anni non saranno obbligati ad accogliere (e non se ne capisce il motivo!).

I Paesi di frontiera, da sempre impegnati a salvare vite umane e a gestire un’emergenza che è diventata ormai strutturale e quotidiana, si vedono caricati ancor di più di responsabilità.

 

Chi ci accomuna all’estrema destra, lo fa con un solo obiettivo: quello di confondere le carte e di gettare fango su una opinione libera e democraticamente espressa. Mentre, infatti, la destra xenofoba ha bocciato la riforma perché non vuole alcun tipo di ricollocamento, noi abbiamo dato parere contrario proprio perché volevamo un meccanismo di ricollocamento automatico e non filtrato da alcun esame preliminare. E avremmo voluto veder riconosciuto in modo immediato, senza la parentesi dei tre anni, il principio di solidarietà tra gli Stati Membri.

 

Noi, contrariamente alla destra xenofoba, continuiamo a chiedere vie legali di accesso all’Unione Europea; continuiamo a criticare gli accordi scellerati fatti dall’Italia con la Libia o dall’Europa con la Turchia; continuiamo a dire che dovremmo iniziare ad occuparci di tutti i migranti, non solo i richiedenti asilo, senza fingere che non ci siano persone che scappano anche per ragioni ambientali, climatiche ed economiche. Continuiamo a criticare il sistema degli hotspot e a chiedere il rispetto dei diritti umani nello svolgimento di tutte le pratiche.

Noi avremmo voluto un altro tipo di gestione dell’immigrazione e crediamo che sia sempre possibile pensare un altro sistema. Noi lo facciamo. Volevamo di più, vogliamo di più, e continueremo a lavorare per ottenere di più.

 

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